Thanathopia di Rubén Darío

Published : 31/10/2019 11:35:00
Categories : Letture

«Mio padre era il famoso dottor John Leen, membro della Reale Società di Ricerche Psichiche di Londra, molto conosciuto nel mondo della scienza per i suoi studi sull’ipnotismo e per il celebre Memoria sobre el Old. È morto da poco. Che Dio lo abbia in gloria».

(James Leen vuotò nello stomaco quasi tutta la birra e proseguì):

«Avete riso di me e delle mie supposte preoccupazioni e stravaganze. Vi perdono perché, francamente, ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la nostra filosofia, come afferma il meraviglioso William.

«Non sapete quanto ho sofferto, quante amare e dolorose torture subisco a causa delle vostre risa… Sì, lo ripeto: non riesco a dormire con la luce spenta; non riesco a sopportare la solitudine di una casa abbandonata; tremo per il rumore misterioso che nelle ore del crepuscolo sorge dalla boscaglia lungo i sentieri; mi disturba lo svolazzare di civette o pipistrelli; non visito mai, nelle città in cui vado, i cimiteri; le conversazioni sugli argomenti macabri mi straziano, e quando vi partecipo, i miei occhi, per potersi chiudere nell’amore del sonno, attendono che appaia la luce.

«Provo terrore per, oh Dio!, la dovrò nominare: la morte. Non riuscireste mai a farmi restare in una casa con un cadavere, neanche se si trattasse di quello del mio più caro amico. Guardate, in ogni lingua è proprio questa la parola maggiormente profetica: cadavere. Avete riso, ridete di me: fate pure. Ma permettetemi di raccontarvi la verità sul mio segreto. Sono arrivato in Argentina, profugo, dopo cinque anni di prigionia, sequestrato in un modo miserabile dal dottor Leen, mio padre, il quale, oltre a essere un grande saggio, sospetto fosse anche un gran criminale. Per suo volere fui condotto in una casa di cura; per suo volere, forse temeva potessi scoprire un giorno quello che desiderava tenere nascosto… e che vi racconterò, perché mi è ormai impossibile restare ancora in silenzio.

«Vi avverto che non sono ubriaco. Non ero pazzo. Lui ordinò il mio sequestro perché… Prestate attenzione».

(Magro, biondo, nervoso, scosso da un frequente tremore, James Leen sollevava il busto sul bancone della birreria dove, circondato da amici, ci esponeva le sue opinioni. Chi non lo conosce a Buenos Aires? Nella vita quotidiana non è un eccentrico. Di tanto in tanto è solito avere strani impeti. Come professore, è tra i più stimati in uno dei nostri migliori collegi, e, come uomo di mondo, sebbene un po’ silenzioso, è tra i migliori giovani che partecipano alla famosa cinderella’s dance. Quindi quella sera proseguì la sua stramba narrazione, che nessuno osò definire fumisterie, visto il carattere del nostro amico. Lasciamo al lettore l’interpretazione dei fatti).

«Persi mia madre quando ero molto giovane, e per volere di mio padre fui mandato in un collegio a Oxford. Mio padre, che con me non è mai stato affettuoso, una volta all’anno veniva da Londra a trovarmi nell’istituto dove crescevo, solitario nello spirito, senza affetti, senza elogi.

«Lì imparai a essere triste. Fisicamente ero il ritratto di mia madre, a quanto mi dicevano, e suppongo fosse proprio questo il motivo per cui il dottore cercava di guardarmi il meno possibile. Non aggiungerò altro su questo punto. Sono idee che mi sovvengono. Scusate il mio modo di raccontare.

«Quando ho toccato quest’argomento mi sono sentito scosso da una forza familiare. Cercate di capirmi. Vi sto dicendo che vivevo solitario nello spirito, imparavo la tristezza in quel collegio dalle pareti scure che ancora mi torna alla mente nelle notti di luna… Ah, in che modo imparai a esser triste! Vedo ancora, attraverso una finestra della mia camera, illuminati da una pallida e malefica luce lunare, i pioppi, i cipressi…, perché c’erano cipressi nel collegio?…, e lungo il parco, vecchi busti corrosi, consunti dalla lebbra del tempo, dove solevano poggiarsi i gufi allevati dall’abominevole e curvo rettore settuagenario… perché il rettore allevava gufi?… E sento, nel silenzio più assoluto della notte, il volo dei rapaci notturni, lo scricchiolio dei tavoli, e a mezzanotte, ve lo giuro, una voce: “James”. Ah, quella voce!

«Il giorno del mio ventesimo compleanno mi fu annunciata la visita di mio padre. Me ne rallegrai, nonostante per lui provassi un’istintiva repulsione; me ne rallegrai, perché in quei momenti avevo bisogno di sfogarmi con qualcuno, persino con lui.

«Si presentò più gentile del solito; e anche se non mi guardava in faccia, la sua voce suonava seria, ma vagamente amabile nei miei confronti. Gli espressi il desiderio di ritornare a Londra, perché, finalmente, avevo concluso gli studi; gli dissi che se fossi rimasto ancora in quella casa, sarei morto di tristezza… La sua voce risuonò seria, ma vagamente amabile nei miei confronti:

«“Ho giusto pensato, James, di portarti via oggi stesso. Il rettore mi ha comunicato che non stai bene in salute, che soffri di insonnia, mangi poco. L’eccesso di studi è negativo, come tutti gli eccessi. Inoltre – volevo dirti –, ho un altro motivo per condurti a Londra. Alla mia età sentivo il bisogno di un appoggio e l’ho trovato. Hai una matrigna, che ti presenterò e che desidera fortemente conoscerti. Dunque, oggi stesso partirai con me”.

«Una matrigna! E all’improvviso mi tornò in mente la mia dolce e bianca e bionda mammina, che da piccolo mi aveva amato e coccolato tanto, quasi sempre trascurata da mio padre, preso a passare le notti e i giorni nel suo orribile laboratorio mentre quel povero e fragile fiore si consumava… Una matrigna! Dunque, sarei andato a sopportare la tirannia della nuova sposa del dottor Leen, magari una spaventosa blue-stocking, o una crudele saccente, o una strega… Scusate le parole. A volte non so esattamente cosa dico, o forse lo so fin troppo bene…

«Non risposi una sola parola a mio padre, e rispettando la sua volontà prendemmo il treno che ci portò alla nostra dimora di Londra.

«Non appena arrivammo, non appena varcai la grande porta antica, oltre la quale c’era una scala scura che portava al primo piano, ebbi una sgradevole sorpresa: non c’era in casa neanche uno dei vecchi servitori.

«Quattro o cinque anziani storpi, con grandi livree cascanti e nere, s’inchinavano muti al nostro passaggio, con indolenti genuflessioni. Entrammo nel salone grande. Era cambiato tutto: i mobili di prima erano stati sostituiti da altri di stile arido e freddo. Solo in fondo al salone c’era ancora un grande ritratto di mia madre, opera di Dante Gabriele Rossetti, coperto da un velo lungo e crespo.

«Mio padre mi condusse nelle mie stanze, non lontane dal suo laboratorio. Mi augurò la buona notte. Per un’inspiegabile cortesia, gli chiesi della matrigna. Mi rispose adagio, calcando le sillabe con una voce tra l’affettuoso e l’impaurito che allora non comprendevo:

«“Dopo la vedrai… la vedrai di certo… James, figlioletto mio, addio. Ti dico che dopo la vedrai…”».

 

«Angeli del Signore, perché non mi avete portato via con voi? E tu, madre, madre mia, my sweet Lily, perché in quegli istanti non mi hai preso con te? Avrei voluto essere inghiottito da un abisso o polverizzato da una roccia, o ridotto in cenere dalla fiamma di un fulmine…

«Accadde quella stessa notte, sì. Preso da una strana nausea fisica e spirituale, mi ero buttato sul letto, con indosso lo stesso abito del viaggio. Come in un dormiveglia, ricordo di aver sentito avvicinarsi alla stanza un vecchio della servitù, biascicava non so quali parole e mi guardava in modo vago con un paio di occhietti strabici che mi facevano l’effetto di un brutto sogno. Poi, lo vidi accendere una bugia con tre candele di cera. Quando mi svegliai, verso le nove, le candele ardevano in camera.

«Mi lavai, mi cambiai. Poi sentii dei passi e apparve mio padre. Per la prima volta, per la prima volta!, vidi i suoi occhi fissi nei miei. Occhi indescrivibili, ve lo assicuro; come non ne avete mai visti né mai ne vedrete: certi occhi dall’iride quasi rossa, simili a quelli dei conigli; occhi che vi avrebbero fatto tremare per il modo strano in cui guardavano.

«“Andiamo, ragazzo, la tua madrina ti aspetta. È di là, nel salone. Andiamo”.

«Di là, seduta su una poltrona dallo schienale alto, come una sedia da coro, c’era una donna.

«Lei…

«E mio padre:

«“Avvicinati, mio piccolo James, avvicinati!”.

«Mi avvicinai meccanicamente. La donna mi tendeva la mano… Udii, allora, come se provenisse dal grande ritratto, il grande ritratto ricoperto dal velo crespo, quella voce triste del collegio di Oxford, ma molto, molto più triste: “James!”.

«Tesi la mano verso la sua. Toccarla mi agghiacciò, mi fece orrore. Sentii il gelo nelle ossa. Quella mano rigida, fredda, fredda… E la donna non mi guardava. Balbettai un saluto, un ossequio.

«E mio padre:

«“Sposa mia, ecco il tuo figliastro, il nostro beneamato James. Guardalo; eccolo qui; è anche tuo figlio”.

«E la mia madrina mi fissò. Mi si serrarono le mascelle. Lo spavento mi pervase: quegli occhi non avevano nessuna luce. Un’idea pazzesca, orribile, orribile, cominciò ad apparirmi chiara in mente. All’improvviso, un odore…, quell’odore, mamma! Dio mio! Quell’odore… non ve lo voglio dire… perché lo sapete già, e insisto: lo avverto ancora; mi si drizzano i capelli.

«E poi venne fuori da quelle labbra bianche, da quella donna pallida, pallidissima, una voce che sembrava provenire da un’urna gemebonda o da un sotterraneo:

«“James, nostro caro James, figlio mio, avvicinati; voglio darti un bacio sulla fronte, un altro sugli occhi e uno ancora sulle labbra…”.

«Non ne potei più. Gridai:

«“Mamma, aiuto! Angeli del Signore, aiuto! Forze celesti tutte, aiuto! Voglio andare via da qui subito, subito, portatemi via da qui!”.

«Udii la voce di mio padre:

«“Calmati, James! Calmati, figliolo! Silenzio, figlio mio!”.

«“No” urlai ancora più forte, in lotta con i vecchi della servitù. “Me ne andrò da qui e racconterò a tutti che il dottor Leen è un crudele assassino, che sua moglie è un vampiro; che mio padre è sposato con una morta!”».

Traduzione di Marcella Solinas

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