L’Aleph di Jorge Luis Borges

Published : 26/04/2018 11:34:21
Categories : Libri

L’Aleph: il libro

Con Finzioni, pubblicato nel 1944 dalla casa editrice Sur, "L’Aleph" è di certo il libro più letto e conosciuto di Jorge Luis Borges. Uscito a stampa per la prima volta nel 1949 per l’editore Casa Losada di Buenos Aires, come "Finzioni" L’Aleph contiene, nella sua prima edizione, racconti scritti e pubblicati (in questo caso tra il 1944 e il 1949) sulla rivista «Sur», rivista fondata nel 1931 da Victoria Ocampo e animata da alcune delle più influenti personalità letterarie rioplatensi della prima metà del Novecento (oltre a Borges e Victoria Ocampo: Silvina, sorella di quest’ultima, e Adolfo Bioy Casares, sodale del primo). Al suo interno, L’Aleph contiene alcuni dei racconti più notevoli di Borges e, con essi, anche alcuni degli snodi speculativi fondamentali per chiunque intenda interpretarne l’opera.

L’immortale, per cominciare, racconto che apre la raccolta e che ci offre un ritratto memorabile, per quanto fantastico, di Omero, poeta delle ombre, archetipo dell’ineffabile, grazie al quale Borges affronta in maniera del tutto originale uno dei temi fondativi della letteratura ispanoamericana: e parliamo della contrapposizione tra civiltà e barbarie. Oppure La casa di Asterione che, con altri due racconti presenti nella raccolta (Abenkhacàn il Bokharì, morto nel suo labirinto e Il re e i due labirinti), ci introduce a uno dei temi più cari e frequentati da Borges nella sua produzione letteraria: e in questo caso parliamo, ovviamente, del labirinto, “simbolo millenario delle duplicazioni e degli smarrimenti, delle ripetizioni inesplicabili e cicliche” in cui “convergono le antiche e tenebrose paure dell’uomo contemporaneo, con le sue ansie, il suo estraniamento” (Domenico Porzio, Jorge Luis Borges, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1985, p. 89), forse il tema per eccellenza di Borges, con il tempo e il sogno. O anche Emma Zunz, racconto inusualmente privo di spunti fantastici, in cui Borges recupera e coniuga in maniera sensazionale il genere poliziesco, altro campo privilegiato, allo stesso modo del fantastico, della letteratura argentina del Novecento.

Su tutti, però, la raccolta di cui stiamo parlando è ovviamente legata al racconto che, chiudendola, le dà il nome: L’Aleph.

 el aleph

L’Aleph: il racconto

Siamo a Buenos Aires, nel 1929, e nelle prime battute del racconto il Borges protagonista della narrazione registra tramite un prosaico cartellone pubblicitario l’ineluttabilità della morte di una donna dolcemente amata di un amore con tutta probabilità non corrisposto: Beatriz Viterbo, personaggio contumace tramite il quale il Borges scrittore omaggia in termini piuttosto parodici uno dei suoi frequenti modelli, il nostro Dante Alighieri.

Per onorarne la memoria, il Borges protagonista prende l’abitudine di andare ogni anniversario della morte di Beatriz a trovare suo padre e suo cugino, Carlos Argentino Daneri, scrittore anch’egli, nella casa che fu anche di Beatriz in calle Garay: casa di memorie e di angoli miracolosi. Dopo anni di incontri, nel 1941, Daneri svela a Borges l’intento che l’ha tenuto occupato per tutta la vita: scrivere un poema che contenga tutto il mondo, che metta in versi tutto ciò che esiste. Si tratta di un’impresa titanica, folle, che tuttavia Daneri, letterato pieno di prosopopea, crede possibile grazie a un Aleph custodito nella cantina della casa in calle Garay.

Un Aleph, ossia “uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti. […] Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli” (Jorge Luis Borges, L’Aleph, trad. it. di Francesco Tentori Montalto, Adelphi, Milano 1998, p. 131). Invitato in cantina da Daneri per toccare con mano il prodigio, lo scettico e incredulo Borges personaggio e narratore, dopo qualche attimo di attesa nel buio e nella solitudine che si devono a formidabili imprese come questa, vede dunque lo stupefacente Aleph: “Una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. […] Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa era infinite cose […] perché io la vedevo indistintamente da tutti i punti dell’universo” (ibidem, p. 134).

Da quando è stato inventato, l’Aleph, questa straordinaria e vertiginosa sfera fatta di narrazione, non ha smesso di portare conseguenze nel mondo concreto. Conseguenze interpretative e speculative, va da sé.

jl borges

 

L’Aleph: l’infinito

Ecco dunque, a questo punto, la domanda più difficile, terribile, e forse per certi versi inutile: cos’è l’Aleph?, qual è il suo significato? Si potrebbe rispondere in tanti modi, la natura stessa dell’Aleph ce lo consentirebbe, così come la natura stessa della “filosofia” borgesiana, di per sé avvezza a dare per scontato che non esiste un solo modo di vedere i fenomeni e le cose, di dar loro un’interpretazione.

Naturalmente cercheremo di isolarne uno, individuando l’attributo fondamentale dell’Aleph: “il punto in cui si concentra l’intero universo” (Alberto Manguel, Con Borges, trad. it. di Giovanni Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano, 2004, p. 48); “il punto di una geometria che considera lo specchio l’amplificatore della natura” (Riccardo Campa, Jorge Luis Borges. L’ombra etimologia del mondo, Il Mulino, Bologna 2004, p. 214).

Questo attributo, naturalmente, è l’infinito, elemento che, a maggior ragione quando coniugato in forma sferica, ci invita a nominare un’altra serie di più o meno impliciti modelli borgesiani dalla matrice squisitamente filosofica, modelli in grado di unire l’idea della sfera con l’idea dell’identità tra la parte e il tutto, elementi che, a loro volta, sono attributi di dio: Parmenide e l’eleatismo,  Plotino e il neoplatonismo, Ermete Trismegisto e l’ermetismo.

Tutti questi modelli vengono tuttavia coniugati nell’Aleph di Borges non per dimostrare l’esistenza o la giustificazione di dio, questo è chiaro, bensì per dimostrare l’esistenza, o meglio la sovranità, del paradosso (che, anche questo, proviene dichiaratamente, in Borges, dal modello della scuola di Elea). Ecco che, insieme a tutto il resto, nell’Aleph c’è anche e forse soprattutto un’interrogazione fondamentale, un problema del pensiero, come suggerisce, tra gli altri, anche Beatriz Sarlo: “L’Aleph: […] punto che include tutti i tempi e tutti gli spazi, sfera astratta e concreta, sfida la percezione perché è un infinito. Suggerisce inoltre un dilemma filosofico: se contiene tutto lo spazio e tutto il tempo, deve contenere un altro Aleph che allo stesso modo contenga tutto, incluso un altro Aleph, e così di seguito, [… obbligandoci] a interrogarci sull’illusione della percezione […] e il paradosso” (Beatriz Sarlo, Borges, un escritor en las orillas, Seix Barral, Buenos Aires, 2007, p. 119).

Proprio per questo motivo l’Aleph può essere considerato come la figura elementale della produzione di Borges: anch’essa, infatti, nella sua totalità, ci obbliga a interrogarci sull’illusione della percezione, mettendoci davanti all’unico elemento aprioristico che caratterizza la nostra esistenza. Ossia, chiaramente, il paradosso.

Ecco, allora, cos’è l’Aleph: un paradosso. Come d’altronde, seguendo Borges, lo è il reale.

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