I perseguitati, Horacio Quiroga

Published : 13/03/2020 15:26:02
Categories : Letture

i perseguitati

Una notte mi trovavo a casa di Lugones, e la pioggia fuori imperversava al punto che ci alzammo a guardare attraverso i vetri. Il pampero[1] soffiava tra gli scrosci d’acqua, scuotendo la pioggia che in raffiche convulse sfocava la luce rossa dei lampioni. Dopo sei giorni di temporale, quel pomeriggio il cielo si era rasserenato verso sud, mostrando un azzurro limpido e freddo. Ed ecco che la pioggia tornava a prometterci un’altra settimana di maltempo.

Lugones aveva una stufa, il che lusingava a sufficienza il mio torpore invernale. Tornammo a sederci e continuammo a chiacchierare amabilmente, come si fa quando si parla di matti. Giorni prima Lugones aveva visitato un manicomio, e le bizzarrie dei suoi ospiti, unite a quelle che io da parte mia avevo osservato tempo addietro, offrivano materiale più che sufficiente per un confortante vis-à-vis tra uomini sani di mente.

Scesa ormai la notte, fummo piuttosto sorpresi quando sentimmo suonare alla porta. Qualche momento dopo entrava Lucas Díaz Vélez.

Tale individuo, che vidi quella sera per la prima volta, ebbe un’influenza piuttosto nefasta su un periodo della mia vita. Come d’abitudine, Lugones ci presentò usando solamente il cognome: scoprii il suo nome solo qualche tempo dopo.

Allora Díaz era molto più magro di adesso. Il suo vestito nero, i capelli biondo cenere, il viso affilato e i grandi occhi neri gli davano un’aria fuori dal comune. Gli occhi, soprattutto, fissi, come attoniti, e allo stesso tempo di una lucentezza velenosa, attiravano molto l’attenzione. All’epoca si pettinava con la riga in mezzo, e i suoi capelli lisci, perfettamente ordinati, formavano un casco lucente.

Sulle prime Vélez parlò poco. Seduto a gambe accavallate, rispondeva solo quando strettamente necessario. D’un tratto, mi voltai verso Lugones e notai che il tizio mi stava osservando. Senza dubbio, se si fosse trattato di un’altra persona avrei trovato naturale quell’analisi in seguito a una presentazione; eppure, l’immobile attenzione che mi rivolgeva mi stupì.

Ben presto smettemmo di parlare. La situazione non fu molto piacevole, soprattutto per Vélez, poiché probabilmente supponeva che prima del suo arrivo non fossimo chiusi in quel terribile mutismo. Fu lui stesso a rompere il silenzio. Parlò a Lugones di certe chancacas[2] che un amico gli aveva mandato da Salta, e di cui avrebbe dovuto portare un assaggio quella sera. Sembrava si trattasse di una varietà particolarmente gustosa, e poiché Lugones si mostrava piuttosto incline a verificarlo, Díaz Vélez gli promise di inviargliene qualcuna.

Rotto il ghiaccio, in dieci minuti tornammo ai nostri matti. Sebbene non perdesse una parola di ciò che sentiva, Díaz non proferì verbo su quel tema scottante; forse non era di suo gradimento. Per questo, quando Lugones si allontanò un momento, mi sorprese il suo inaspettato interesse. In un attimo, mi raccontò stralci di aneddoti – le guance arrossate e le labbra precise e convinte. Senz’altro quegli argomenti gli erano molto più cari di quanto pensassi, e il suo ultimo racconto, riferito con profonda vivacità, mi diede a intendere che capiva i matti con una profondità non comune al mondo.

Era la storia di un ragazzo di provincia che una volta superato il marasma di una febbre tifoidea si era ritrovato a camminare lungo strade popolate di nemici: aveva sofferto per due mesi di manie di persecuzione, facendo non pochi danni. Poiché si trattava di un tipo piuttosto intelligente, lui stesso commentava il suo caso con una tale precisione che, ascoltandolo, non si sapeva davvero cosa pensare. Sembrava che stesse fingendo fino in fondo, o almeno quella era l’opinione generale quando lo si ascoltava raccontare in modo picaresco il suo caso – il tutto con la vanità tipica dei matti.

Aveva passato i tre mesi successivi a pavoneggiarsi della sua perspicacia psicologica, finché un giorno non si era bagnato la testa con l’acqua fresca della sanità mentale e della modestia per le proprie idee.

«Ora sta bene,» concluse Vélez «ma gli sono rimasti alcuni tratti tipici del disturbo: una settimana fa, per esempio, l’ho incontrato in una farmacia; era appoggiato con la schiena al bancone ad aspettare non so cosa. Ci siamo messi a parlare. D’improvviso è entrato un tizio, senza che lo vedessimo, e poiché non c’era nessun dipendente si è messo a tamburellare le dita sul bancone per essere servito. Il mio amico si è girato bruscamente verso l’intruso con uno scatto davvero animale, e ha preso a guardarlo fisso negli occhi. Chiunque si sarebbe voltato, ma non con la rapidità di un uomo che sta sempre all’erta. Sebbene non soffra più di manie di persecuzione, ora gli è rimasto un inconsapevole fondo di terrore che lo coglie al minimo indizio di una brusca sorpresa. Dopo averne fissato la causa per un momento senza muovere un muscolo, sbatte le palpebre e distoglie lo sguardo, distratto. Sembra che abbia conservato un oscuro ricordo di qualcosa di terribile accadutogli in un altro tempo e contro cui non vuole più farsi trovare impreparato. Si immagini l’effetto che gli farebbe un’improvvisa stretta al braccio, per strada. Credo che non gli passerà mai».

«Senza dubbio, è una reazione tipica» convenni. «E le psicosi, sono scomparse anch’esse?».

Cosa strana: Díaz si fece serio e mi lanciò un’occhiata fredda e ostile.

«Si può sapere perché me lo chiede?».

«Perché stavamo parlando proprio di questo!» gli risposi, sorpreso. Senz’altro l’uomo si rese improvvisamente conto di quant’era ridicolo poiché subito si profuse in scuse:

«Mi perdoni. Non so cosa mi sia successo. A volte sento come una sorta di fuga inaspettata della mente. Cose da pazzi» aggiunse, con un bizzarro gioco di parole.

«Completamente da pazzi» scherzai.

«Eccome! È un puro caso che mi resti ancora un briciolo di ragione. E ora che ci penso, sebbene le abbia già chiesto scusa – e lo faccia di nuovo – non ho ancora risposto alla sua domanda. Il mio amico non soffre più di psicosi. Poiché ora è intimamente sano, non sente come prima il bisogno perverso di denunciare la sua stessa pazzia, forzando quella terribile spada a doppio taglio che è il raziocinio… non trova? È chiarissimo».

«Non molto» mi permisi di dubitare.

«È possibile» concluse, ridendo. «Un’altra cosa davvero da pazzi». Mi fece l’occhiolino, e si allontanò sorridente dal tavolo, scuotendo la testa come chi con quel gesto tace molte cose che potrebbe dire.

Lugones tornò e abbandonammo l’argomento – che avevamo ormai esaurito, d’altra parte. Durante il resto della visita Díaz parlò poco, sebbene si notasse chiaramente il nervosismo che la sua stessa riservatezza gli causava. Alla fine se ne andò. Forse tentò di farmi dimenticare ogni cattiva impressione con il suo affettuosissimo congedo: mi ripeté il suo cognome e il suo indirizzo con una sostenuta stretta di mano piena d’affetto. Lugones scese con lui, perché la scala già buia non invitava un gran che ad avventurarsi da soli lungo la sua perpendicolarità.

«Che razza di tipo è quello?» gli chiesi quando tornò. Lugones si strinse nelle spalle.

«È un soggetto terribile. Non so come abbia fatto stasera a rivolgerle anche solo dieci parole. Di solito passa un’ora intera senza aprire bocca, e lei può ben immaginarsi il piacere che mi fa quando si presenta così all’improvviso. D’altra parte, non viene spesso. È molto intelligente quando è in forma. Se ne sarà accorto, ho sentito che avete chiacchierato».

«Sì, mi raccontava un caso curioso».

«Di cosa?».

«Di un amico perseguitato. Se ne intende di pazzi».

«Non ne dubito, visto che anche lui è perseguitato».

Non appena sentii quelle parole, un lampo di logica illuminante dissipò l’oscurità che Díaz mi aveva trasmesso. Era ovvio…! Ricordai soprattutto la sua aria fosca quando gli chiesi se non soffriva più di psicosi… Il vecchio pazzo aveva pensato che l’avessi intuito e mi stessi insinuando nel suo intimo…

«Ma certo!» scoppiai a ridere. «Solo ora me ne rendo conto! Eppure il suo Díaz Vélez è diabolicamente arguto!». E gli raccontai l’inganno che mi aveva teso per divertirsi alle mie spalle: inventarsi un amico perseguitato, le sue reazioni. Appena cominciai, però, Lugones mi interruppe:

«Non è così; tutto ciò è successo veramente. Solo che l’amico non è altri che lui stesso. Le ha raccontato tutta la verità; ha avuto una febbre tifoidea che si è aggravata e che ha curato per quanto possibile, e come vede le sue condizioni di salute sono ancora piuttosto problematiche. È anche molto probabile che la storia del bancone sia vera, e che tuttavia sia successa proprio a lui. Un tipo interessante, eh?».

«Fin troppo!» gli risposi, giochicchiando con il portacenere.

 

[1]Vento freddo di origine sud polare, ribattezzato pampero dai coloni spagnoli nel Río de la Plata, poiché proveniva dall’interno del continente, la pampa, appunto [N.d.T].

[2]Zollette dolci a base di succo di canna da zucchero che viene fatto bollire e poi essiccare. Consumate come dolci o dolcificanti, sono diffuse in numerose varianti in quasi tutti i paesi dell’America Latina [N.d.T.].

Traduzione di Giulia Zavagna

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