Un viaggio terribile, Roberto Arlt

Published : 12/03/2020 18:34:10
Categories : Letture

Una volta un astrologo mi disse che il segno zodiacale che presiedeva la mia casa natale segnalava, fra altre disgrazie, gravissimi pericoli durante viaggi per mare, e io sorrisi con dolcezza perché non credevo nell’influenza degli astri; così, all’inizio del mio viaggio verso Panama, neanche per un istante mi passò per la testa che mi aspettavano avventure tremende come quelle che mi avrebbero permesso di compilare questa cronaca, la quale, insieme ai rapporti telegrafici del corrispondente del «Times» a Honolulu, costituisce una delle storie più stupefacenti che la Geologia abbia mai potuto sognare per completare gli studi sugli smottamenti che si verificano sul fondo dell’oceano Pacifico.

Ebbi il presentimento della disgrazia alle 16 del 23 settembre, mentre ero disteso sull’amaca del ponte principale della nave Blue Star e guardavo scendere la sera sul porto di Antofagasta.

Fumavano le ciminiere della città sul limitare del deserto, e ingiallivano lentamente le facciate delle fabbriche. L’arco disegnato dal porto, con le sue case digradanti lungo le falde delle colline, racchiudeva strade in pendenza che sembravano fondersi nella nebbiolina azzurra fluttuante negli avvallamenti della cordigliera.

Durante la giornata aveva soffiato un forte vento, e l’aria era carica della polvere rossiccia del deserto. Di fianco al porto, i binari di una ferrovia si arrampicavano sulla superficie rocciosa di una collina; di colpo un treno passeggeri, con i finestrini chiusi a causa dell’oro del sole, si smarrì fra le sporgenze delle montagne, e io, non so perché, sentii una stretta al cuore. Se in quel momento avessi dato ascolto alla voce del mio istinto avrei abbandonato la Blue Star, ma c’erano validi motivi che mi impedivano di scendere a terra.

Questo fece sì che, distogliendo il pensiero dal fugace presagio, concentrassi l’attenzione sugli uomini che gironzolavano per il porto.

Come sopravvissuti a una catastrofe, passavano indigeni color cioccolato in groppa ai loro muli. Più straccioni che mendicanti, da vicino sembravano lebbrosi; gli occhi pieni di cispe, le palpebre arrossate, bruciate dal salnitro dei giacimenti di nitratina. Un monco con un pappagallo appollaiato su un trespolo canticchiava mostrando il moncherino annerito. A volte, in mezzo a quella moltitudine di miserabili scalzi risuonava il clacson di un’automobile, e allora si vedevano gli straccioni scostarsi precipitosamente per non essere schiacciati.

La Blue Star era ancorata davanti a una casa di pietra. Sul basamento del muro si vedeva una targa d’ottone; abbassando gli occhi si scoprivano, intorno alla nave, numerose imbarcazioni che andavano e venivano, mentre i bracci delle gru cigolavano depositando nella sua stiva le ultime tonnellate di salnitro che poteva caricare.

Me ne stavo disteso sull’amaca, straordinariamente stanco, con dei dolori alle articolazioni dovuti forse all’eccessiva umidità atmosferica. Inoltre ero già raffreddato al momento dell’imbarco a Puerto Caldera, quando la mia famiglia, in maniera un po’ brusca, mi aveva raccomandato di non farmi vedere nei paraggi per parecchio tempo. Il ricordo delle ultime truffe divertenti che avevo messo a segno, sommato alla debolezza, faceva sì che tutto quello che avevo intorno acquisisse per la mia sensibilità una specie di trasparenza vitrea da allucinazione. Ogni tanto mi immaginavo i miei compagni di viaggio ballare nei locali notturni di Atacama, poi chiudevo gli occhi e mi lasciavo andare, cullato dal sordo russare delle gru. L’ultima volta che aprii gli occhi notai alcune colombe svolazzanti intorno al campanile della chiesa, che spiccava nel pendio di case di pietra. Nel porto continuava la sfilata degli indigeni in groppa ai loro muli; fra le macchie verdi di un boschetto si estendeva un muro di cinta, bucherellato da numerose aperture. Doveva essere un edificio pubblico. Più in là una bandiera inglese fiammeggiava sul cosiddetto castello di “Ab-el-Kader”, la cui torre rotonda si stagliava nell’aria rossiccia come l’avamposto di una cittadella antica.

In quell’istante risuonò alle mie spalle la voce di mio cugino Luciano.

«Devo darti una notizia».

Alzai gli occhi. Luciano, che si era specializzato nel comunicare al prossimo cattive nuove, fece la sua solita espressione e, chinando la faccia giallognola e spigolosa verso la mia, ripeté:

«È terribile, giuro. Se potessi restituire il biglietto, lo consegnerei subito».

«Che diavolo succede?».

«Alla Sirena di Sale, il più importante locale notturno di Antofagasta, mi hanno informato che la nave non ha cambiato soltanto il padrone, il che non avrebbe importanza, ma anche il nome. In origine si chiamava Don Pedro II e non Blue Star. E come sai, la nave che cambia nome è condannata alla sciagura».

In quel momento Luciano si accorse che Mariana Lacasa stava ascoltando le sue parole e alzò volutamente la voce per interessarla alla sua “notizia”. Mariana Lacasa era una giovane che durante il viaggio sotto costa si era invischiata in qualche modo con Ab-el-Korda, figlio di un remoto emiro arabo. Luciano era vagamente innamorato di lei e così, per coinvolgerla nella conversazione, le domandò:

«Signorina Mariana, lei era informata del cambiamento del nome della nave?».

«No».

La giovane si sedette al mio fianco e poi domandò:

«Ha qualche importanza questo cambiamento?».

Luciano proseguì:

«È arcistraprovato che una nave che cambia nome attira su di sé la collera di tutte le forze plutonie. In sintesi, siamo fritti».

Da qualche secondo, il signor Gastido si era fermato alle spalle di miss Mariana. Il signor Gastido era un milionario peruviano che viaggiava insieme alla moglie e a tre sorelle di quest’ultima, il che suscitava le dicerie di tutte le malelingue. Attratto dal profumo della carne di miss Mariana, cercò spavaldamente di chiarire la questione:

«Che cosa intende lei, signor Camblor, per essere fritti?».

Luciano detestava Gastido. E invece di restare calmo, rispose un po’ nervosamente:

«Che cosa intendo per essere fritti? Cosa intendo? Be’, signor Gastido, intendo che lei, io e tutti i passeggeri di questa nave saremo vittime di eventi terribili durante questo viaggio».

Il peruviano aveva due motivi per essere sprezzante nei confronti del destino: era ricco e sapeva tirare di boxe. Un po’ mordace, un po’ scettico, ribatté:

«E allora perché si è imbarcato su questa nave, galantuomo?».

Luciano, infastidito dalla sfumatura ironica che risuonava nell’ambiguo termine “galantuomo”, ribatté con ostilità:

«Non sono solito discutere dei miei presagi».

Così disse e, voltate le spalle al peruviano, cominciò platealmente a caricarsi la pipa.

La situazione divenne imbarazzante. Miss Mariana canticchiava una canzoncina insolente; il signor Gastido guardava me e mio cugino come se avesse intenzione di spaccarci la testa, ma la moglie e le sue tre sorelle lo chiamarono, e tutti e cinque si allontanarono dignitosamente. Luciano, sbuffando fuori una boccata di fumo, riprese a parlare nello stesso momento in cui l’arabo, che aspirava a inserire miss Mariana nel suo harem, si sedeva cortesemente accanto a lei:

«Inoltre, a bordo ho scoperto un altro dettaglio impressionante».

«Dica, Luciano, dica pure. L’ascoltiamo».

«Succedono parecchie cose strane su questa nave. Prima di tutto, come dicevo, il cambio di nome, e poi c’è la faccenda dell’equipaggio».

«Che ha l’equipaggio?».

«Come, non lo sapete?».

«No».

«Ebbene, l’equipaggio di questa nave è formato da un branco di delinquenti».

«Cosa?».

«Proprio così. Ehi, tu», esclamò rivolgendosi a un cameriere che passava di lì «che cosa facevi prima di imbarcarti?».

«Ero calzolaio».

«Non avevi mai navigato?».

«No, signore».

Il cameriere si allontanò e Luciano, in preda a una crisi di pessimismo disperato, proseguì:

«Vedete? Un giorno che il mare è un po’ agitato, questo farabutto ci vomita addosso».

Due signore anziane, scandalizzate dal lessico di mio cugino, si allontanarono. Rivolgendosi a miss Mariana, all’arabo e a me, Luciano continuò:

«Non ho mai trovato un equipaggio con un passato tanto impressionante».

Miss Mariana sorrise.

«Non rida, miss Mariana. Vedrà. Il domestico delle nostre cabine era guardascambi ferroviario a Santiago, ma ha provocato uno scontro fra due treni merci, da ubriaco, ed è stato cacciato dalla compagnia; il capocameriere è stato scelto per questa carica perché si sospetta che sia un ruffiano riciclato, e solo un ruffiano potrebbe farsi rispettare da questi autodidatti…».

«Per quale motivo hanno scelto gente simile?» domandò la signora Miriam, moglie del pastore protestante richiamato a Quito che si era avvicinato silenziosamente al nostro gruppo.

«Alla Sirena di Sale mi hanno informato che la compagnia è sull’orlo del fallimento e in conflitto con le organizzazioni dei lavoratori portuali. I proprietari della Blue Star hanno fondi così scarsi che… naturalmente non c’è conferma… non c’è conferma… mi hanno detto che l’apparecchio del telegrafo senza fili è messo così male che non funziona».

«E lei come ha avuto il coraggio di imbarcarsi su una nave del genere?».

Io e Luciano sospirammo contemporaneamente, senza arrischiarci a rispondere che ci eravamo imbarcati perché ci avevano regalato il biglietto; io, inoltre, non mio cugino ma io, ero stato accompagnato a prudente distanza dalla scorta del capo della polizia. Ma questa è un’altra storia…

Questa fu la conversazione con cui iniziò il viaggio che Coun, corrispondente del «Times» a Honolulu, qualche settimana dopo avrebbe chiamato, con una definizione azzeccata, la “Traversata del Terrore”.

Traduzione di Raul Schenardi

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