“Storia di una indocumentata” di Ilka Oliva Corado

Published : 12/05/2018 12:51:09
Categories : Libri

Il 1848 è stato un anno decisivo per la futura storia politica e culturale del continente americano: gli Stati Uniti impongono il trattato di Guadalupe Hidalgo al Messico. Si chiudeva un periodo di appropriazioni da parte del potente stato nordamericano sul più debole “vicino di casa”. La Dottrina Monroe aveva dato inizio a questo lungo processo che non sarebbe stato solo ed esclusivamente geografico, di delimitazioni di confini, ma avrebbe significato molto di più: il Rio Bravo assumeva il ruolo di spartiacque tra il ricco e il povero, tra il dominante e il dominato, tra l’assimilatore che schiaccia l’identità altrui e l’assimilato che lotta per mantenere viva la propria. Si imponeva una dinamica di colonialismo interno con l’incorporazione di una cultura subalterna a una dominante, attraverso la conquista, la forza e la violenza. “L’America agli americani”, così risuonava la dottrina del destino manifesto: gli Stati Uniti assurgono a nazione dominante nel continente, identificando se stessi come l’unica “America” possibile.

Decenni più tardi, il neoeletto presidente degli Stati Uniti Donald Trump, nel suo discorso di insediamento dichiara con voce tuonante “America first”; ancora gli Stati Uniti che si identificano con l’America; America first nell’economia, nelle relazioni internazionali, ma soprattutto America first nella società. Due parole tanto cariche di significato che nei pochi secondi in cui sono state pronunciate hanno reimpostato la politica di un Paese, parole che fanno del nazionalismo e della lotta agli immigrati i pilastri di una nuova era. E le prime decisioni non si sono fatte attendere. Già a gennaio del 2017, a poche settimane dall’insediamento, il presidente Trump firma l’ordine esecutivo per dare inizio ai lavori di costruzione del muro, che dovrebbe coinvolgere le circa 2000 miglia di confine, di cui 653 sono già dotate di reticolati e sistemi di protezione costruiti a partire dagli anni Novanta e implementati durante l’amministrazione Bush figlio e nelle successive. Ma quel muro continuerà ad essere attraversato. Milioni di persone lo hanno sfidato e ogni giorno altre migliaia provano a farlo.

Tra questi migranti c’è Ilka Oliva Corado, guatemalteca, che nel 2003, a soli 24 anni, decide di lasciare il suo Paese, di prendere un aereo per il Messico “che l’ha trasformata in una straniera”, e da lì iniziare il lungo cammino attraverso i deserti di Sonora e Arizona che l’avrebbe portata negli Usa. Solo dieci anni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, Ilka trova il coraggio di scrivere la sua storia e dunque provare a far pace con la sua vita. La frontiera l’ha cambiata, l’ha distrutta, ha compromesso molto della sua vita, ma compie comunque un vero “atto di coraggio”, o forse un atto terapeutico, ovvero raccontare al mondo cosa significa quella frontiera. Lei, indocumentata tra gli indocumentati, rifiuto latinoamericano, come la polizia di frontiera l’ha definita, lei espalda mojada (schiena bagnata) e piegata per le fatiche dell’attraversamento, dedica il suo libro “Storia di una indocumentata” “agli immigrati indocumentati che sono morti nel tentativo, a quelli che sopravvivono alla frontiera della morte, a quelli che emigreranno”. Cresciuta a Ciudad Peronia, in Guatemala, venditrice ambulante di gelati, raccoglitrice di fragole, maestra e arbitro di calcio (la sua grande passione), prima di affrontare il deserto vive su sé stessa le ristrettezze economiche della famiglia; il maschilismo societario e familiare (donna in una società che dalla donna si aspetta solo favori sessuali); le brutture della discriminazione per quella pelle così olivastra, per quel viso dai tratti così indigeni, per quel crespo dei capelli che ricorda tanto, troppo, la componente di origine africana che è così presente in alcuni paesi latinoamericani; vittima di violenza verbale e vessazione psicologica all’interno del suo stesso nucleo familiare; è per tutte queste ragioni che decide di affrontare il deserto, seppur non del tutto consapevole di quello che la frontiera le avrebbe riservato.

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Ilka sperimenterà e poi racconterà nel libro, la faccia buia della frontiera, dove, come in un incubo, assieme agli uomini e alle donne del suo gruppo, e a quel coyote bambino che l’avrebbe dovuta condurre in salvo ma che è troppo piccolo per gestire una situazione tanto più grande di lui, diventano oggetto di una “caccia all’uomo” disumana da parte della polizia di frontiera o di bande di delinquenti che compiono vere e proprie battute di caccia contro i gruppi di immigrati, usando di tutto: pistole di gomma, cani ammaestrati, armi da franchi tiratori, motociclette, pick-up ed elicotteri. I capitoli centrali di questo libro ci catapultano in una specie di videogame, dove gli uomini sono inseguiti come bestie e una volta presi vengono uccisi, le donne violentate, o rinchiusi in vetture accalappiacani, pick-up che nella parte posteriore del veicolo presentano una grande gabbia in cui rinchiudono i migranti presi. Per poi deportarli, lasciarli morire nel deserto, o rivenderli ad organizzazioni criminali.

Ma lei, moderna eroina del deserto, indomita e testarda vince la sua personale battaglia con quell’attraversamento, e porta con sé nel suo cammino verso l’alba statunitense il coyote bambino e tutto il gruppo di migranti che nella fatica del deserto si è affidato a lei per sopravvivere a quella avventura. Tuttavia sopravvivere al deserto, non significa uscire illesi dalla frontiera, perché la frontiera segna, le immagini delle violenze, della morte, dei desaparecidos, hanno accompagnato le notti di Ilka per anni, e per anni ancora l’hanno fatta ricadere nel vortice dell’alcool, odiare la vita e sé stessa. Eppure il suo destino non era quello di morire nel deserto o di darla vinta alla vita, ma di raccontare la frontiera, in un documento che è a memoria dell’inferno vissuto per sé e per tutti quelli che, se sopravvissuti, non hanno il coraggio di farlo e che diventa, allo stesso tempo, testimonianza da consegnare al lettore. “Storia di una indocumentata” è un grido di dolore che coinvolge e, pagina dopo pagina, intrappola e colpisce dritto allo stomaco. Leggerlo è come vedere Ilka dimenarsi in uno dei suoi incubi notturni, è come catapultarsi in quei kilometri di deserto, con un faro puntato addosso, con il rombo delle moto della migra che ti accerchia e le spine dei cactus conficcate nella pelle.

In che modo “Storia di una indocumentata” si inserisce nel dibattito culturale esistente sulla frontiera? Lo fa riportando l’attenzione sulle pietre sotto i piedi dei migranti, sul filo spinato, sui brandelli di pelle umana che i migranti lasciano sul muro nei momenti concitati dell’attraversamento.

Il confine tra Messico e Stati Uniti che Ilka racconta è stato motivo di tante discussioni, non solo politiche, ma anche culturali, di genere, letterarie. La Linea, il muro sovrastato da metri e metri di filo spinato, e l’area di frontiera circostanti sono diventati zona di resistenza, zone di incontro e scontro con l’alterità, il primo passo dei migranti nell’altrove immaginato, sconosciuto, a volte raccontato, ma di sicuro carico di aspettative. “Storia di una indocumentata” rompe per certi versi con un certo tipo di tradizione letteraria. Ilka non è l’intellettuale che fa interviste sul campo, lei il campo lo ha vissuto in prima persona. Ed è l’autorità conferitale dal deserto che le da la forza di raccontare un’altra frontiera, quella delle violenze, delle persecuzioni, della migra, dei coyote e dei sequestri di persona, il cui unico elemento di resistenza è – quando c’è – la solidarietà tra migranti. La sua è una battaglia che fa leva sulla memoria, sulla presa di coscienza dei lettori, una battaglia semantica sull’uso della parola “indocuementato”, perché “clandestini”, come ovunque nel mondo, vengono definiti i migranti che attraversano quel confine, sono delinquenti e i migranti semplicemente non lo sono.

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A distanza di oltre dieci anni da quello spartiacque, l’attraversamento, ormai affermata giornalista, opinionista, e scrittrice, la Colorado non smette di essere una indocumentata negli Stati Uniti; in questo momento si starà svegliando per cominciare un’altra giornata da indocumentata, in uno dei suoi mille lavori (dog-sitter, cameriera, baby-sitter), forse non più in rotta con la vita, sicuramente più matura ma con la stessa grinta e integrità di quella giovane Ilka che ha attraversato la frontiera.

Maria Rossi

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