Le microfinzioni nella letteratura ispanoamericana

Published : 20/04/2018 11:59:20
Categories : Letteratura latinoamericana

Microfinzioni e letteratura ispanoamericana: un lungo matrimonio felice

La microfinzione (o il microracconto) è, possiamo dirlo senza alcun tipo di timori, un genere fortemente radicato all’interno della letteratura ispanoamericana. E con questo non affermiamo nulla di nuovo. Capace di vantare nomi illustri nella schiera di chi l’ha utilizzata nell’America di lingua spagnola, la microfinzione annovera infatti tra i suoi più famosi (anche se occasionali) frequentatori un autore come Jorge Luis Borges, per fare soltanto l’esempio più immediato e di certo conosciuto. Vi sono tuttavia alcuni autori, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, che hanno legato il proprio nome a questo modo di scrivere narrazioni, elevandolo, se così ci è concesso dire, a genere letterario a sé, dotato insomma di una certa autonomia, di una specifica coerenza interna e, se vogliamo, di un determinato quadro procedurale e compositivo. E tutto questo, non c’è bisogno di sottolinearlo, è avvenuto primariamente in ambito ispanoamericano.

Si faccia per esempio riferimento al guatemalteco Augusto Monterroso (1921-2003), autore de Il dinosauro (in Opere complete e altri racconti, trad. it. di Helen Carosi, Omero, Roma 2013), il microracconto forse più conosciuto nella platea mondiale dei lettori (anche di quelli meno avvezzi alla narrazione brevissima), di cui tra gli altri ha parlato, nelle sue Lezioni Americane (Mondadori, Milano 1993, p. 58), anche Italo Calvino, e con toni davvero lusinghieri bisogna aggiungere.

Oppure si prenda il caso delle argentine Ana Maria Shua (1951) e Luisa Valanzuela (1938), del cileno Fernando Iwasaki (1961) o dei messicani Juan José Arreola (1918-2001) e René Avilés Fabila (1940-2016), e ci fermiamo qui per non tediare chi legge con un inventario troppo lungo.

Tutti questi autori, ognuno a suo modo, sono stati in grado di coniugare la letteratura tramite l’estrema brevità, producendo volumi su volumi di racconti che nella maggior parte dei casi non superano le dimensioni di una pagina, e che talvolta si accontentano anche di una o due righe.

 

Microfinzioni e letteratura ispanoamericana: un genere di resistenza politica?

Ma a che esigenza risponde la microfinzione? Si tratta di un genere per lettori svogliati, di una letteratura per persone fin troppo avvezze agli umori passeggeri della vita urbana? Oppure sotto c’è (anche) altro? Per rispondere a queste domande, ci piace chiedere l’aiuto di un paio di eccentrici interpreti della letteratura (e non solo) del Novecento, Gilles Deleuze e Félix Guattari.

Questi, nel 1974, così scrivevano: “Di grande, di rivoluzionario non c’è che il minore”. Pertanto, bisogna “odiare ogni letteratura di padroni” (Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di Alessandro Serra, Quodlibet, Roma 2010, p. 47). Con tali parole intendevano riflettere, prendendo le mosse proprio da Kafka, sulle modalità rivoluzionarie di fare letteratura da una minoranza (etnica, politica, o comunque si voglia) ma usando in un certo modo particolare, ossia semplificando facendole dire ciò che generalmente non diceva, una “lingua maggiore”, una lingua egemonica potremmo dire con licenza. Kafka, uno che a bene vedere nella sua pratica letteraria ha frequentato anche quella che fin qui abbiamo chiamato microfinzione (peraltro con risultati davvero sublimi).

Come Kafka, anche Céline e Artaud vengono citati da Deleuze e Guattari, che concludono il loro discorso con la seguente dichiarazione programmatica delle letterature minori: “Servirsi del polilinguismo nella propria lingua, fare di essa un uso minore o intensivo, opporre il carattere oppresso di questa lingua al suo carattere oppressivo, trovare i punti di non-cultura e di sottosviluppo, le zone linguistiche di terzo mondo attraverso le quali una lingua sfugge, un animale si inserisce, un concatenamento si innesta” (ibidem, pp. 48-49).

Questa riflessione, forse un po’ fuori contesto, ci viene tuttavia incontro allorquando ragioniamo circa la natura “autoctona” della microfinzione nell’America ispanica. Essa, infatti, come scrive Anna Boccuti nell’introduzione alla raccolta Bagliori estremi. Microfinzioni argentine contemporanee, “costituisce […] uno dei casi in cui il rapporto di imitazione o influenza culturale esercitato dall’Europa sull’America Latina sin dalle origini della sua letteratura viene radicalmente negato”. Infatti “in America si assiste al prosperare di forme letterarie originali, autoctone e autonome che si proiettano su altre aree culturali al di là del subcontinente latinoamericano” (Arcoiris, Salerno 2012, p. 10).

In tal senso la microfinzione, rendendosi genere a sé a partire da un luogo che non è centro, gioca sull’abolizione, o quanto meno sulla ristrutturazione, sul dislocamento, del canone letterario europeo, occidentale. E lo fa mischiando le carte, nel breve volgere di poche parole, della più estesa forma narrativa del racconto o, addirittura, del romanzo. Lo fa, aggiungiamo, adottando una lingua propria, essenziale, armonica.

Ma in che modo questi piccolissimi tesi, a partire dal contesto in cui nascono e si sviluppano, possono essere considerati rivoluzionari e, in sostanza, anti-egemonici? In che modo si sviluppano, e grazie a quali espedienti narrativi vengono prodotti in America latina questi “testi ibridi che, nell’arco di poche pagine o poche righe, mescolano prosa poetica, racconto, poesia, aforismi, sentenze, a volte motti di spirito” (ibidem, p. 8)?

 

Microfinzioni e letteratura ispanoamericana: la brevità e i suoi espedienti

Che si chiami microracconto, mini o microfinzione, racconto brevissimo, microletteratura o in uno qualsiasi degli altri innumerevoli nomi affascinanti ed evocativi che volta per volta fungono da etichetta (qualcuno ha addirittura parlato di “letteratura Twitter”), i testi che appartengono a questo genere letterario mostrano alcuni elementi ricorrenti, tra i quali possiamo citare, a titolo generale: giochi linguistici, continui dialoghi tra testo e titolo, finali-precipizio che rovesciano l’andamento narrativo precedente togliendo la terra sotto i piedi del lettore, interrogazioni aperte su spazi siderali di pensiero che trascinano nello spaesamento lo stesso lettore appena precipitato, utilizzo inveterato dell’ellissi come strategia retorica, frequentazione continua del fantastico, ricorso sfrenato al perturbante, sottomissione incondizionata all’ironia, uso quasi irrispettoso della sottrazione, recupero e attualizzazione di temi mitologici o della letteratura universale. Ecco alcuni degli espedienti cui ci hanno abituati gli autori di microfinzioni, ecco alcuni dei modi che caratterizzano in maniera peculiare la microfinzione.

Si tratta, in ogni caso, di elementi capaci di valorizzare al meglio la brevità, ampliandola a dismisura nel non detto (scritto), ossia in tutto ciò che resta al di là delle parole stampate su carta ma che queste necessariamente presuppongono, proprio in ragione della loro brevità.

Il lettore che dunque si avvicini alle microfinzioni (a questi agglomerati narrativi dalla minima estensione ma dalla massima densità), pur precipitando, pur impegnato in un’interrogazione senza fine, ha il compito di inserire quanto ha letto (microscopico) all’interno di quanto sta tutt’attorno (macroscopico), cercando nell’immensa galassia della letteratura quanto gli è necessario per interpretare in uno o in innumerevoli modi (non importa quanti) il piccolo testo che ha appena letto. Si renderà in tal modo conto che la microfinzione rispetta alcune regole di condotta piuttosto irriverenti, e questo di certo gli darà soddisfazione. Almeno si spera.

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