Julio Cortázar: intervista, 1976

Published : 28/03/2019 15:59:31
Categories : Conversazioni

Questa conversazione di Rosalba Campra e Alberto Panelo con Cortázar si svolse a Roma, durante le sessioni del Tribunale Russell nel gennaio del 1976. Creato nel 1966 per denunciare i crimini di guerra, specialmente riguardo alla guerra del Vietnam, questo Tribunale ebbe altre sessioni conosciute come Tribunale Russell II, dedicate all’America Latina. Cortázar prese parte al Tribunale del 1974, che si occupò principalmente dei crimini del colpo di Stato in Cile. Due mesi dopo la partecipazione di Cortázar nel Tribunale del 1976 ebbe luogo il colpo di stato in Argentina.

 julio cortazar

Ormai è diventato quasi un luogo comune parlare della letteratura latinoamericana in termini di “realismo magico” o, come dice Alejo Carpentier, di “reale meraviglioso”. Secondo te, questa espressione è valida, è sufficiente per ridefinire la letteratura latinoamericana?

No, non lo credo. Forse la caratteristica più stimolante e più bella della letteratura latinoamericana attuale è il fatto che essa non può rientrare nelle definizioni correnti. Le definizioni sono sempre un po’ accademiche, precettistiche; e nel caso della letteratura latinoamericana assistiamo alla nascita simultanea di molte tendenze, di molte esperienze, di molte ricerche. È evidente che esiste una componente barocca, o di “realismo magico” (che in essenza è lo stesso, sono solo parole che cambiano) presente in molte manifestazioni della letteratura latinoamericana, ma non basta affatto per definirla nella sua totalità.

Da quali elementi parte questo luogo comune? Non è forse stato il pubblico europeo a creare questa immagine limitativa?

Sì, anche se non è stato soltanto il destinatario europeo a crearla; può essere stata responsabile anche la critica latinoamericana che ancora, per la stragrande maggioranza, continua a imitare i modelli europei, a seguire i criteri europei per giudicare la letteratura. Io credo che noi abbiamo già una letteratura perfettamente sviluppata, ma che la critica sia rimasta un po’ indietro. Dovrà modificare molte prospettive per riuscire a collocarsi in una posizione favorevole, che le permetta di apprezzare e capire la nostra letteratura.

Volendo fare una mappa della letteratura latinoamericana, o piuttosto stabilire un rapporto tra letteratura e società, quali sono secondo te gli scrittori che oggi meglio esprimono la realtà latinoamericana?

Credo – e questo è un aspetto molto bello all’interno del contesto latinoamericano – che ogni paese dell’America Latina stia producendo il suo o i suoi scrittori, ognuno dei quali, nell’unità linguistica che per fortuna abbiamo, esprime le differenze particolari, proprie di ogni paese. Ciò sta dando in primo luogo una ricchezza immensa all’insieme della letteratura latinoamericana, perché risulta evidente che la visione di un romanziere argentino è molto diversa dalla visione del mondo di un romanziere messicano, o cubano. Al tempo stesso, esiste in profondità quella magnifica cosa che è una garanzia del trionfo definitivo del nostro futuro: l’unità linguistica e il sentimento di essere latinoamericani che unisce tutti noi.

Per essere più concreti, potresti citare degli autori – o delle opere – che caratterizzano questo processo?

Sì, naturalmente, in questo caso è molto probabile che ci siano delle dimenticanze o delle ingiustizie, come sempre avviene con questo tipo di domande a bruciapelo, nelle quali non si ha tempo di riflettere sufficientemente. Quello che posso dare è un catalogo ridotto delle mie preferenze letterarie. Preferenze che, certamente, hanno uno spettro assai vasto, e che comprendono opere molto dissimili tra loro. Vale a dire: da una parte mi entusiasma e mi commuove la ricerca coraggiosa, giovane e dinamica di un Mario Vargas Llosa, nel suo tentativo di fare un taglio verticale della società peruviana ed esplorare la vera identità del suo popolo. Dall’altre, mi entusiasma e mi commuove ugualmente il tentativo raffinatamente estetico di un José Lezama Lima, che fa la stessa analisi, ma partendo da Platone, dagli archetipi, da Jung, da Freud, dai sogni e dalla “cubanità” intesa magicamente, come la intende appunto Lezama Lima. Ho dato i nomi di due scrittori che si trovano ai poli opposti, o poco meno. Tra essi si inseriscono molti altri. Un momento fa parlavamo di “realismo magico”. Bene, forse questa denominazione conviene soprattutto a Gabriel García Márquez. Ma c’è anche Carpentier, tutto il primo Miguel Ángel Asturias, e anche l’opera assai sperimentale di Carlos Fuentes. A questi nomi si sommano quelli di Salvador Garmendía e, nel Rio de la Plata, la grande figura, non abbastanza conosciuta, di Juan Carlos Onetti. Ma insisto, il catalogo è molto incompleto.

Rimanendo sempre in questi termini di rappresentatività latinoamericana, se facciamo un salto generazionale, come consideri l’opera di Borges?

Ripeterò qui qualcosa che ho sempre detto e che non mi stancherò mai di ripetere. Borges è stato, letterariamente parlando, una figura provvidenziale in un momento critico della letteratura, almeno della letteratura argentina, ma credo che si possa parlare anche di quella latinoamericana.

Borges incomincia a mostrarci la sua opera (i racconti e i saggi) nel momento in cui, nell’America Latina, si scriveva ancora seguendo una pesante eredità di retorica spagnola, di retorica decadente. In Argentina si scrivevano ancora, lentamente e inutilmente, pagine innumerevoli, per dire le stesse cose che poi Borges diceva in pochi paragrafi, in poche righe. Borges ci ha dato una lezione di severità idiomatica, di rigore stilistico, e questa mi sembra che sia la sua grande lezione, la sua grande importanza.

Secondo te, attraverso quali elementi si può rintracciare o analizzare il rapporto tra letteratura e società? Nei contenuti? Nella reazione del pubblico? O forse nel fatto che una intera generazione di scrittori si ponga gli stessi problemi vitali e letterari?

Non è facile dissociare gli elementi per rispondere bene a questa domanda. Ho l’impressione che ciò che tu chiami “la reazione del pubblico” sia condizionato dalla qualità dell’opera. Ma che vuol dire “qualità”? Vuol dire qualcosa di molto difficile da definire. Da un lato, un contenuto che risponde al vissuto del nostro tempo, alle pulsioni, alle preoccupazioni, ai problemi. D’altro lato, un modo di esprimere quelle esperienze e quel contenuto che produca un grande impatto, un impatto profondo, nella mente e nella sensibilità del lettore. Delle migliaia di libri che vengono pubblicati all’anno in qualsiasi paese del mondo, soltanto alcuni raggiungono quell’accordo quasi miracoloso tra il contenuto e la maniera di esprimere il contenuto. Io credo che il pubblico (e non mi riferisco soltanto al pubblico di élite, al pubblico intellettuale, ma al pubblico in genere) è profondamente sensibile a quell’esatta corrispondenza tra contenuto e forma, e reagisce sempre bene, positivamente. 

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Credi che il boom della letteratura latinoamericana abbia contribuito allo sviluppo di una coscienza di “latinoamericanismo” o è stato lo sviluppo di questa coscienza, spinto dai movimenti rivoluzionari, a creare le basi per il riconoscimento di una letteratura latinoamericana? In poche parole, chi deve a chi?

Credo che nessuno è debitore di nessuno, o forse tutti devono a tutti. Credo che qui esiste una dialettica molto speciale. Voglio dire in primo luogo che questa parola boom l’ho sempre detestata, perché in fin dei conti è falsa, e poi è un peccato che per designare un fenomeno tipicamente latinoamericano si faccia ricorso a una parola inglese. Inoltre, ti dirò che risulta evidente che, nel momento in cui il cosiddetto boom si manifesta, in America Latina esisteva uno stato di sensibilizzazione, che si traduceva in aspettativa, in desiderio di trovare se stessi, e di trovare gli scrittori che potessero esprimere e tradurre ciò che il popolo può esprimere e tradurre soltanto oralmente e in privato. Da un’altra parte, una serie di scrittori che sono apparsi ognuno indipendente dall’altro e in paesi diversi ma uniti nel tempo, diciamo in un arco di dieci anni, hanno prodotto un certo numero di opere che hanno risposto esattamente a questa aspettativa, a questa sensibilizzazione. Vale a dire che questo processo di presa di coscienza di tipo rivoluzionario, di sentimento di identità latinoamericana è stato doppio: da una parte gli scrittori erano preparati, anche per obbligo e sensibilità professionale; dall’altra esisteva un pubblico che stava aspettando la manifestazione di ciò che sentiva. E tra questi due elementi c’era un parallelismo. Credo dunque che il boom è un fatto rivoluzionario, e inoltre ne abbiamo le prove: quando io ero giovane, in America Latina gli autori latinoamericani erano letti per ultimi, noi giovani leggevamo gli autori stranieri, quasi sempre in traduzione. Ora avviene il contrario: i latinoamericani leggono i loro scrittori e solo dopo leggono gli autori stranieri. Basta vedere gli annunci, i cataloghi di qualsiasi casa editrice per rendersi conto che ciò che dico è la verità. 

Dunque, questa accettazione da parte dei latinoamericani degli autori nazionali sarebbe un esempio del processo di decolonizzazione culturale finalmente in atto in America Latina?

Sì, credo che siano in atto molti processi di decolonizzazione nel nostro continente, e il processo letterario culturale non è che uno di questi. A Roma, nel tribunale Russell, abbiamo ascoltato testimonianze angosciose, orribili, sulla macchina di penetrazione culturale dell’imperialismo nordamericano in America Latina; abbiamo le prove di come tenti di imporre (e talvolta ci riesca) i propri modelli nella cultura latinoamericana, e questo grazie alle fondazioni, alle borse, ai piani di cooperazione. Sono queste le cose che lo scrittore latinoamericano deve affrontare e contro le quali deve lottare. 

A proposito di questo problema, tempo fa in una polemica hai detto che la tua mitragliatrice è la letteratura: perché? Forse perché ad un certo punto nella tua opera il tema politico è stato predominante, tralasciando in un certo senso quello fantastico, oppure lo dicevi nel senso di una rivoluzione nel linguaggio?

No, non è così. La frase «la mia mitragliatrice è la letteratura» ha due origini. La prima è un’immagine ispirata a una famosa fotografia di Eizenštein, il regista sovietico, in cui lo si vede steso in terra come a prendere la mira con un mitra, ma il mitra è una cinepresa. Questa è la prima origine della frase. Ma c’è un motivo più profondo, ed è che in questa polemica alla quale facevi allusione si parlava ancora una volta dell’impegno politico dello scrittore in America Latina in termini che io considero falsi. Ci sono certi militanti politici che credono che lo scrittore sia veramente impegnato soltanto quando prende il fucile, o partecipa alla guerriglia o almeno a un’azione politica in cui sia disposto a una militanza totale. Io so che molti scrittori l’hanno già fatto, molti hanno perfino sacrificato la loro vita come nel caso di Javier Héraud nel Perù, ma non credo che ogni scrittore sia obbligato a farlo. Si può essere scrittori impegnati – e io mi considero tale – e tuttavia scegliere come mitragliatrice, come arma di lavoro e di lotta la letteratura.

Nel tuo romanzo Libro de Manuel, pubblicato nel 1973, tu hai cercato infatti di utilizzare la letteratura in questo senso, insistendo su certi contenuti di tipo politico. Ma il Libro de Manuel non sembra avere soddisfatto le aspettative che ha sempre suscitato la pubblicazione di ogni tua opera. Persone decisamente impegnate nella militanza politica non l’hanno accettato totalmente, e i tuoi critici abituali sembravano un po’ perplessi. Tu stesso nell’introduzione del libro manifesti dubbi sulla sua accettazione. Perché tutto questo?

Guarda… proprio quelle righe all’inizio del libro sono una specie di premonizione di ciò che sarebbe successo. Ero abbastanza lucido per saperlo, e per questo l’ho detto. Non volevo mettere le mani avanti ma soltanto dimostrare in anticipo che non mi importava. Ciò che dico in quelle righe è molto semplice: la nostra America Latina, e forse il mondo intero, sono in genere molto manichei nella loro visione del mondo e delle cose. Esiste la tendenza a vedere tutto in termini di bianco o nero, destra o sinistra e questo comporta la polarizzazione più totale dei problemi, senza capire le sfumature e soprattutto senza volerle accettare.

Nel caso del mio libro, gli amanti della letteratura pura (che sono in genere i liberali e la gente di destra) si sono sentiti molto offesi perché avevo scritto un libro con una considerevole carica politica ed ideologica. D’altra parte, i miei compagni di lotta si sono sentiti ugualmente offesi perché avevano letto un romanzo nel quale c’è umorismo, nel quale c’è erotismo e una quantità di cose che non consideravano “cose serie” su un piano rivoluzionario. Io invece continuo a credere che siano cose serie, le più serie. Un mondo rivoluzionario che non sia al tempo stesso ludico non sarà mai un mondo rivoluzionario; una rivoluzione senza allegria, senza gioco e senza erotismo non sarà mai una rivoluzione, o in ogni modo non vale la pena fare la rivoluzione se non si sviluppano anche queste cose – e gli esempi non mancano. 

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Questo libro è stato il tuo primo tentativo di far convergere politica e letteratura? Secondo te, segna un momento di rottura nell’arco della tua produzione?

Sì, effettivamente è il mio primo tentativo in questo senso. Ho scritto una volta un racconto, intitolato Riunione, il cui personaggio centrale, che parla in prima persona, è il Che Guevara. È la cronaca dello sbarco del Gramma sulla costa cubana, dell’avanzata verso la Sierra Maestra e dell’incontro in mezzo alle montagne con i compagni rivoluzionari assediati dall’esercito di Batista. Bene, questo racconto era essenzialmente letterario e tuttavia, come puoi vedere dal tema, conteneva un messaggio politico, una solidarietà politica e anche un tentativo di riflessione che io attribuivo al Che, ma che naturalmente non era suo, era mio. Libro de Manuel è un tentativo ancora più esplicito di far convergere letteratura e politica; qui si mescolano direttamente le notizie dei giornali, la storia quotidiana, e la finzione letteraria. È molto difficile riuscire in questo tentativo e io conosco perfettamente tutti gli errori di questo libro, scritto in una corsa contro il tempo. Dato il momento storico dell’Argentina, l’efficacia di Libro de Manuel dipendeva dalla rapidità della sua pubblicazione e io, da buon scrittore piccolo borghese, sono abituato a scrivere tranquillamente, prendendomi tutto il tempo necessario. Questa volta invece mi sono trovato nella situazione del giornalista che deve finire l’articolo perché le rotative del giornale stanno aspettando.

È stato un esperimento appassionante in questo senso, ma non credo si sia pienamente realizzato.

“Libro de Manuel” è stato allora nei confronti della tua produzione anteriore una rottura che apre una nuova strada, oppure lo consideri un’esperienza isolata?

Io no so mai quali saranno le nuove strade di quello che hai chiamato la mia “produzione”. Può darsi che scriverò un altro libro dove si cerchi la stessa convergenza di storia e finzione, ma sarà per altre strade, naturalmente, perché vorrei provare altre forme, fare altre esperienze. Ti posso dire comunque che, finito Libro de Manuel, ho nuovamente separato il lavoro di tipo ideologico da quello letterario.

Ho pubblicato un libro di racconti fantastici che non hanno niente a che vedere con la politica e sto scrivendo altri racconti fantastici. È l’unica cosa che al momento attuale “mi viene” come tema. Lascio invece la parte ideologica agli articoli giornalistici, o al lavoro personale come quello che ho svolto per esempio nel tribunale Russell. Neanch’io posso dunque sapere quali saranno le mie strade future. Non ho nessun metodo, e mi lascio guidare da quella cosa che i romantici chiamavano “ispirazione”.

(traduzione di Anna Boccuti)

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