Illusion d’Amoureux, Aleister Crowley

Published : 20/03/2020 17:14:25
Categories : Letture

Ella giaceva, come un giglio dorato dalle labbra di geranio, nel mezzo del fiore della notte. Più delicato della luna, il suo corpo risplendeva come l’oro del raccolto. Più impetuosi del presagio di una doppia Venere, gli occhi verdi lanciavano fiammate portentose. Dal calice dorato dell’amore sorgeva un profumo buono e terribile, un profumo così forte e mortale da prevalere sulla più sottile fragranza del suo intero essere col suo richiamo dominante e svergognato.

Stava con le braccia aperte, come se aspettasse la visita di qualche dio.
Di sicuro qualche dio spaventoso? Poiché dov’era distesa, il giglio dorato dalle labbra di geranio, era, per così dire, un fiore della notte.
Era una piccola stanza quadrata, nera da un capo all’altro. Un nero smorto che non rifletteva la luce dei due solenni candelabri d’argento con in cima delle lunghe candele sgocciolanti, che fornivano l’unico risalto in quel mondo notturno.
Questi si trovavano a capo di uno strano divano. Era un’enorme bara, senza coperchio, dai lati a cerniera, dove lei stava distesa. Aveva allentato il meccanismo e abbassato i lati per stirarsi comodamente. Sei funi di seta nera pendevano dal soffitto e terminavano con degli uncini, che venivano fatti passare in degli anelli sui lati della bara, così che questa potesse essere fatta oscillare lentamente avanti e indietro.
Una pesante coperta di pelo di gatto nero era distesa sotto di lei, e pareva che il suo corpo, che ora rifulgeva come una pietra di luna, ora come ambra, potesse attizzare delle scintille elettriche dalla pelliccia.
Il corpo della donna era splendido; cambiava continuamente nel riposo. Ella sorpassava la gamma di ogni musica e di tutti i fiori e i gioielli e le parole suadenti; non c’era niente di bello sulla terra a cui non potesse essere paragonata. Ai lati della stanza c’erano delle alte specchiere con cornici nere, astutamente disposte affinché dal centro si potessero scorgere infinite prospettive della sua bellezza, che si spandeva all’infinito.
Anche il soffitto era ricoperto di specchi, così che mentre lei era distesa sulle pellicce potesse guardare verso l’alto, e vedersi pendere come una stella dalla nera volta della notte.
Nel tempio accanto a lei si trovava una curiosa immagine. Scolpito nel lucido granito nero dell’Egitto, che pare, per così dire, la forma corporea della Notte dei Tempi, un dio stava accovacciato sul suo piedistallo; un dio imperscrutabile, sorridente, sempre sorridente di un sorriso che esprimeva una lussuria inimmaginabile e una crudeltà risolta – grazie a quale alchimia teurgica? – in una beatitudine fredda e pura. Era qualcosa di eterno come le stelle – no, al confronto le stesse stelle si inchinerebbero come nella riverenza che la Gioventù fa all’età matura! Tuttavia vi albergavano una forza e una bellezza come di gioventù dorata.
La sua pelle era liscia e splendente non perché riflettesse la luce circospetta dei globi elettrici, ma perché lo spirito stesso della luce – una luce troppo essenziale per essere riconosciuta come luce dagli umani – lo abitava e lo definiva.
Mentre stava distesa come un giglio dorato, lei mosse le labbra in una misteriosa orazione più forte e sottile di una preghiera.
“Oh adorabile bellezza, splendido essere! Oh anima depravata! Abominazione suprema, io ti invoco! Ti adoro! Ti amo! Corpo e anima, ti invoco! Destati! Alzati! Muoviti! Manifesta la tua beatitudine, a me anima affamata della tua saggezza, il mio corpo trema per ricevere i tuoi baci! Non ti ho forse corteggiato e atteso? Ma tu non vieni. Con quale incantesimo potrò evocarti? Sono forse lo zimbello della tua maestà? Oh mio dio, mio signore, mio amante – ma no, tu non vuoi esserlo. Ma ti amo! Ti adoro!”
Con una forza suprema gettò un urlo verso il Dio; si graffiò la pelle con le dita; si contorse sulla pelliccia; dalle sue labbra gorgogliarono parole di una passione esecrabile; aveva la bocca come un mare impetuoso di bestemmie; gemette e lottò, squassata da qualche forza interna come una donna durante il travaglio; ricadde in un silenzio nero, esausta e priva di sensibilità.
Ma le parole risuonarono come echi dell’infinito – quanto ti amo! Ti adoro!
Si spensero le luci; il dio nero si ricompose; la sua forma possente superava i limiti dello spazio. Si rapprese in forza e fuoco; si addensò; come una nuvola nera lui la circondò – anima e corpo. La divorò col primo bacio; le sue braccia se la spremettero in bocca come un bambino farebbe con dell’uva dorata; la maestà della sua passione la fendette come ferro ardente; la vita di lei si precipitò giù per i baratri dell’annichilimento.
E pure dentro di lei crebbe l’alba di una nuova vita, vasta e magnifica. Diventò il dio, assorbì il Suo essere; il suo orrido grido – il grido di un’anima alla porta del Paradiso incantata dal lampeggiare dell’abisso – si mutò in una meravigliosa risata d’amore nel momento in cui raggiunse l’apice della felicità.

***

Questo è tutto ciò che vidi; pure la nuvola si ritirò; le luci riscattarono il loro bagliore. Là nel mezzo il mio amore aspettava – me – e rimasi incerto, come un tuffatore che esita per pregustare a pieno il brivido del salto.
Rimasi lì, Dio vero da Dio vero, nella brillante luce verde dei suoi occhi, che fiammavano un ardore squisito su di me – sì, su di me.
Ero rimasto lì per un momento o per un secolo?

Traduzione di Luca Baldoni

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