Come schiavi in libertà nell'inferno dello zucchero. Intervista a Raúl Zecca

Published : 05/03/2018 13:08:02
Categories : Conversazioni

Raúl Zecca Castel (1985) è antropologo, videomaker e traduttore. Ha collaborato alla realizzazione di numerosi documentari socio-antropologici viaggiando in Bolivia, Perù, Guatemala, Brasile e India. Attualmente è uno dei redattori del blog l’AmericaLatina.net. Autore del libro “Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana” (Edizioni Arcoiris, 2015) e dell’omonimo documentario, Raúl Zecca C. ci porta direttamente nel cuore della Repubblica Dominicana dove a pochi chilometri da spiagge paradisiache, sorgono centinaia di comunità invisibili, baluardi della povertà e dell’emarginazione. A vivere qui, tra sterminate piantagioni di canna da zucchero, in baracche fatiscenti spesso prive di energia elettrica, acqua corrente e servizi igienici, sono i migranti haitiani, scappati a migliaia dal paese più povero e sventurato del continente americano con il sogno di trovare un futuro dignitoso oltre frontiera. Speranza vana, poiché in queste terre di nessuno sono costretti ad affrontare condizioni di vita e di lavoro quasi schiavistiche, tagliando canna da zucchero da mattina a sera per pochi soldi.

Come schiavi in libertà: tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana

Cosa ti ha avvicinato alla Repubblica Dominicana e alla condizione degli haitiani che vivono nei bateyes?

La ricerca sui migranti haitiani, inizialmente, trovava la sua ragion pratica nel progetto di tesi per la mia laurea in Antropologia, poi discussa presso l’Università di Milano-Bicocca. Tuttavia, la scelta di tale argomento risale a motivazioni sicuramente precedenti. Ho avuto modo di conoscere questa drammatica realtà grazie al lavoro di mio padre, Adriano Zecca, documentarista professionista con il quale sin da giovane ho iniziato a collaborare. È insieme a lui, infatti, che ho potuto girare l’America Latina, soggiornando a lungo e più volte soprattutto in Bolivia e Perù, ma anche in Brasile, Guatemala e ultimamente anche in India. Nel 2007 realizzò un documentario dal titolo “Inferno di zucchero” e, attraverso la testimonianza di un coraggioso sacerdote missionario in Repubblica Dominicana, documentava le terribili condizioni di vita e di lavoro cui erano sottoposto i braccianti haitiani nelle piantagioni di canna da zucchero. Da quel momento presi a cuore la sorte di quei nuovi schiavi e nel 2013 partii a mia volta per la Repubblica Dominicana, dove restai circa cinque mesi, alloggiando in un batey nell’entroterra del paese e condividendo la mia vita quotidiana con i lavoratori e le loro famiglie, raccogliendone le testimonianze, scattando fotografie e realizzando video che potessero documentare la terribile situazione di sfruttamento che stavano vivendo. Il tutto con la speranza di portare un po’ d’attenzione su questa realtà ancora oggi poco nota.

In Repubblica Dominicana non c’è solidarietà né accettazione nei confronti della popolazione haitiana che vive nel Paese, anzi, c’è una forte discriminazione. Pensi che potrà esserci un cambiamento o questa situazione sarà destinata a rimanere invariata?

Il razzismo, così come le varie forme di discriminazione che questo comporta, sono effettivamente una realtà quotidiana per la popolazione di origine haitiana che vive in Repubblica Dominicana. Inoltre, soprattutto negli ultimi anni, la situazione si è ulteriormente aggravata per via di alcuni provvedimenti giuridici che hanno sostanzialmente normato tali discriminazioni, rendendo la vita dei migranti e dei loro figli estremamente vulnerabile, minacciata da rimpatri forzati e deportazioni, oltre che da abusi e violenze. Credo, tuttavia, che sia necessaria una distinzione fondamentale per evitare di cadere in generalizzazioni che rischiano di incrinare ancor di più rapporti sicuramente non facili. Sulla base di quanto ho potuto verificare personalmente, ma soprattutto sulla base di una storia comune che ha interessato Haiti e la Repubblica Dominicana, è possibile individuare forme di convivenza, di solidarietà e di rispetto reciproco estremamente efficaci tra i due popoli, abituati inevitabilmente a relazionarsi in tutti gli aspetti della vita quotidiana e lavorativa, soprattutto all’interno dei ceti sociali più bassi. Un diverso livello di analisi, invece, riguarda la dimensione politica e mediatica che, facendo leva su istanze nazionalistiche, evidentemente strumentali, ha sempre individuato nell’haitiano un efficace capro espiatorio per tutti i mali che affliggono il paese. Si tratta di un messaggio esplicito che la politica, servendosi dei media come megafono, perpetua in modo assillante e che inevitabilmente condiziona negativamente le possibilità di una convivenza pacifica. Esiste, voglio dire, una chiara responsabilità politica e mediatica rispetto alla cosiddetta questione haitiana e, per rispondere alla domanda, credo anzitutto che sia urgente un lavoro culturale di natura politica che si faccia finalmente carico di appianare la distanza artificiosa tra la realtà dei fatti e la narrazione che di questi è stata elaborata. Sono fermamente convinto che haitiani e dominicani possano convivere, anche se certamente in questo momento storico l’aria che tira a livello internazionale non è delle migliori e ne sappiamo qualcosa anche noi in Italia… 

A proposito, e questa è una domanda abbastanza delicata e dalla risposta ampia e complessa, ma pensi sia possibile tracciare un parallelo fra l’immigrazione haitiana verso la Repubblica Dominicana e l’immigrazione soprattutto di origine africana verso l’Italia?

La storia delle migrazioni dei popoli ha una connotazione universale e senza tempo. Il fatto che abbiamo assunto il principio della sedentarietà come paradigma di vita, tracciando confini sul globo terrestre, alzando muri ed elargendo passaporti non cancella una verità che si manifesta sotto i nostri occhi quotidianamente. Come ha scritto Pino Cacucci “gli uomini hanno le gambe, non le radici, e le gambe sono fatte per andare altrove”. La situazione che stiamo vivendo in Italia non rappresenta affatto un’emergenza, come invece ci viene ripetuto in modo trasversale dalla politica, e in questo ritroviamo la stessa voluta discrepanza tra realtà e narrazione che funziona così bene in Repubblica Dominicana. Anche in Italia, infatti, l’immigrato, e lo straniero in generale, è diventato il bersaglio privilegiato su cui riversare ogni colpa possibile e immaginabile. La conseguenza è anche qui un aumento dell’intolleranza nelle sue peggiori forme: razzismo, xenofobia, violenza. E anche qui urge un lavoro culturale e politico.

Haitianos 1

Al di là della drammatica condizione che si vive nei bateyes, la Repubblica Dominicana oltre a numerosi problemi di carattere politico, economico e sociale, al tempo stesso ha infinite caratteristiche positive. Come descriveresti questo Paese a chi lo associa solo alle spiagge tipicamente caraibiche?

Senza dubbio la Repubblica Dominicana, così come tutta l’isola di Hispaniola, dunque anche Haiti, gode di paesaggi unici e le spiagge ne rappresentano solo una parte. È un paese che presenta una biodiversità ricchissima ed esplorarne l’entroterra è sicuramente un’esperienza indimenticabile, ma la vera ricchezza della Repubblica Dominicana è quella umana, con tutte le sue contraddizioni. I dominicani sono gente povera, costretta a fare i conti ogni giorno con le necessità della vita, tra sacrifici e innumerevoli problemi sociali – criminalità, prostituzione, traffico di droga -, eppure sono un popolo gioioso, amichevole, sempre sorridente, capace di affrontare il destino avverso al ritmo di bachata (e qualche bicchiere di Brugal, il rum locale). A volte ho definito i dominicani come un popolo spensierato, di un’allegria nostalgica, con una gestualità e uno sguardo permeati di malinconia per qualcosa di ignoto. Ma una cosa è certa: per il viaggiatore che approda in Repubblica Dominicana, pronto a cercarne l’essenza e disposto ad accettarne i difetti, l’esperienza dell’incontro con questo popolo lascerà un marchio indelebile.

Quale forma espressiva senti più vicina, la scrittura o la realizzazione di documentari?

Considero la scrittura e il documentario due forme di rappresentazione molto diverse. La prima mi consente di andare più in profondità nell’analisi di ciò che racconto, ma la seconda ha un potenziale sicuramente più coinvolgente per il fruitore, anche se rischia di restituire una realtà semplificata, più soggetta a interpretazioni ideologiche. Quando osservo un’inquadratura il mio pensiero corre sospettosamente alla ricerca di tutto ciò che è rimasto escluso dalla ripresa e, in un certo senso, si potrebbe dire che realtà e finzione lottano proprio lungo quella frontiera dell’immagine. Mi si obietterà che anche nel testo scritto non si è del tutto al riparo da tale critica e certamente è così, ma ritengo la scrittura – in particolare la saggistica o il giornalismo narrativo, con il quale mi sento più affine - un mezzo espressivo che lascia più margine di negoziazione rispetto a quanto faccia l’immagine. In ogni caso, per quanto mi riguarda, tanto la scrittura quanto l’immagine – sia il documentario o la fotografia -, al di là delle finalità artistiche, rappresentano due strumenti complementari utili a portare l’attenzione su questioni sociali e, in tal senso, trovano giustificazione in un ideale di denuncia. Personalmente, dunque, considero entrambi strumenti di militanza politica.

 Haitianos 2

Share this content