«Rido di chi si comporta come se io non esistessi», intervista a Cronwell Jara

Published : 24/05/2018 12:19:54
Categories : Conversazioni

Cronwell Jara nasce a Piura, in Perù, nel 1950. Nel 1955 si trasferisce con la famiglia a Lima, dove si laurea in Lettere presso la Universidad Nacional Mayor de San Marcos e dove vive tutt’oggi, dedicandosi alla scrittura e alla docenza di scrittura creativa presso la Universidad Garcilaso de la Vega. Ha scritto soprattutto narrativa, ottenendo anche prestigiosi premi, specialmente per i suoi racconti: il Premio José María Arguedas (1979), il Premio Enrad-Perú, Cuentos para la televisión (1979), il Premio Copé de cuentos (1985) e il Premio INCPNA de cuentos infantiles (2008) tra gli altri. Sebbene la sua carriera letteraria risalga agli anni ‘80, la sua opera non ha ancora ottenuto da parte della critica il riconoscimento e l’attenzione che senza dubbio merita; va riconosciuto, tuttavia, che negli ultimi anni, il romanzo Patíbulo para un caballo è stato considerato uno dei romanzi più importanti e fondanti della letteratura peruviana degli ultimi decenni.

Giovanna Minardi ha intervistato per noi l’autore.

cronwell jara

G.M.: Quando hai cominciato a scrivere e perché?

C.J.: Ho cominciato quando avevo otto anni, scrivevo poesie, ma dipingevo anche e facevo xilografie in legno di cedro e con colori di anilina. Sentivo la necessità, una necessità naturale, di esprimere le mie emozioni. La prima volta che scrissi una poesia, credevo, alla mia giovane e ingenua età, di stare inventando la poesia. Pensavo che nessuno scrivesse come me: una forma molto emotiva di dire le cose che vedevo e che sentivo; in fondo, non era altro che un modo per esprimere le mie insicurezze e le mie domande su tutto ciò che percepiva il mio sguardo infantile. Avevo anche paura della vita, del mio futuro, dell’imperscrutabilità della realtà, davanti a cui non avevo nessuna spiegazione razionale, logica. Ma è stata anche un’epoca felice, molto felice perché mi potevo esprimere attraverso i colori o le parole e i sentimenti. Ero un bambino molto silenzioso e, spesso, invece di giocare con gli altri bambini, preferivo dipingere, scrivere poesia, favole o leggere Bécquer, Rubén Darío, libri di storia e biografie di grandi eroi e di artisti universali. E a tredici o quattordici anni, la scrittura, la pagina in bianco o i nuovi autori che scoprivo mi davano brividi d’emozione. Leggevo i libri che mi passava mio padre: i classici per l’infanzia, Hans Cristian Andersen, Perrault o i fratelli Grimm; poi arrivarono Le mille e una notte, e piu tardi, già adolescente, i peruviani Ciro Alegría, Enrique López Albújar, José María Eguren, José María Arguedas con El sexto. Erano gli anni della crescita, di piena eccitazione davanti alla scrittura e alla pittura. 

 

G.M.: Decidi a priori se scrivere un racconto o un romanzo o viene fuori spontaneamente?

C.J.: Dipende dalla circostanza e dal momento. Ci sono racconti che sono venuti fuori senza che lo avessi pensato né pianificato prima. Mi sono come scoppiati dentro “costringendomi” a scriverli, come Montacerdos e Hueso duro tra gli altri. E dovevano venir fuori con veemenza, pazzia. Ero assalito dalla paura e mi chiedevo il perché, allora sentivo che per non morire dovevo scrivere un racconto o una poesia. E ancora oggi, a volte, sento all’improvviso la necessità di scrivere una poesia o un racconto che dopo inserisco in un volume. Ovviamente molti racconti hanno richiesto una preparazione previa, ero affascinato dalla ricerca del tema, dalla costruzione della trama, correggevo e riflettevo, calibravo i dialoghi, soppesavo la tensione drammatica, calcolavo ed equilibravo la suspence fino a trovare il giusto tono emozionale, poetico, che è il valore più prezioso di ogni tipo di opera letteraria (poesia, racconto, testo teatrale, romanzo). Se scrivo è perché sento un’urgente necessità di creare qualcosa, un bisogno che non posso rinviare, come fare l’amore con la donna che si ama. Qualcosa di disperatamente satanico, in un certo senso irresponsabile, che non si può controllare: o stai adesso con lei o non la avrai mai.

G.M.: Per te Montacerdos è un racconto o una nouvelle?

C.J.: Per i critici peruviani Montacerdos è un romanzo breve. Per me è solo un racconto corto e non m’interessa se è o no romanzo. M’interessa che sia un racconto che emoziona e commuove per la trama e la forma estetica. Inoltre, Montacerdos mi ha stimolato a scrivere il romanzo Patíbulo para un caballo, i cui protagonisti sono i bambini di Montacerdos; questo romanzo è stato molto apprezzato da Manuel Scorza, da Antonio Cornejo Polar tra gli altri, e oggi è considerato uno dei migliori romanzi dell’ultima letteratura peruviana.

 

G.M.: Che significa esattamente il titolo Montacerdos?

C.J.: “Montacerdos” è un nome che ho inventato per riferirmi ai bambini che usano i maiali per cavalcarli e per fare delle gare tra di loro. Io sono stato un “montacerdos”, te lo confesso. La storia che racconto è biografica, ma senza la mia presenza come narratore, divento invisibile. Ho voluto che apparissero i miei amici, personaggi reali, ho voluto raccontare quel che è stato, che è successo. Chiamo anche “Montacerdos” il quartiere, che esiste realmente, dove ho vissuto i fatti che riporto senza inventare nulla. Montacerdos non è un racconto inventato, fantastico, è una storia vera. Sebbene sia nato a Piura, sono cresciuto in questo quartiere da quando avevo cinque anni. Per questo a molti, credo, non piaccio, perché sono uno scrittore di barriada, cresciuto in una barriada. Per alcuni sono assolutamente da evitare: non sono né di Miraflores né di San Isidro (quartieri ricchi di Lima ndr). Quando scrissi Montacerdos, pensavo al quartiere che avevo perso, e provavo molta nostalgia, tristezza, malinconia perché avevo abbandonato i miei amici, le mie amiche di questa barriada, dove avevo trascorso l’adolescenza, dai cinque ai diciassette anni. I miei genitori trovarono una bella casetta nella zona “El bosque”, con tutti i confort propri di una città moderna. Mio padre era un bravo tecnico traumatologo e guadagnava bene. Noi non eravamo poveri, io ho voluto soltanto scrivere i miei ricordi del quartiere e di parte della mia infanzia, “una buona esperienza di vita”, mi sono detto e l’ho scritto. Niente a che vedere con racconti di altri scrittori.

 

G.M.: A che si deve la presenza di così tanti animali in Montacerdos?

C.J.: In Montacerdos, Faite e Patíbulo para un caballo non vedo molta differenza tra l’essere umano e gli animali. Non possiamo vivere senza di loro e loro senza di noi. Siamo figli della stessa energia cosmica, siamo microscopiche, insignificanti particelle di questo pianeta. Allora perché dimenticare gli animali e far creder che l’uomo sia superiore? Entrambi respiriamo, abbiamo fame, freddo, necessità comuni. Solo che l’uomo è l’imbecille che si autodistrugge e che distrugge il pianeta per avidità. Allora, come non rispettare e consacrare gli animali e il loro habitat naturale! Se l’uomo fosse un poco più semplice e modesto della scimmia, se non avesse ambizioni e se non accumulasse capitali in modo irrazionale, criminale, si avvicinerebbe di più alla scimmia, al maiale felice nella sua pozzanghera, sarebbe più naturale. Amerebbe e rispetterebbe di più l’aria, i boschi, pianterebbe più fiori in giardino e rifiuterebbe i marciapiedi d’asfalto e dipenderebbe di meno dalle macchine che inquinano. Inoltre, l’attenzione agli animali è dovuta anche al fatto che ho dato i primi passi nel cortile di casa, a Piura, dove ho imparato a camminare tra maiali, galli, pulcini, conigli e fantasmi…, non è una fantasia preziosa per un bambino?

 

G.M: Perché alcuni sostengono che sei uno scrittore andino? Tu ti consideri uno scrittore andino?

C.J: Ci sono molte forme di essere andino ed è difficile non esserlo, in quanto il nostro è un Paese andino, per sangue, per tradizione, per infamie, per tradimenti, per atti di estremo coraggio, per rabbia, per risentimento, per negazione, per temperamento, per furbizia, per intelligenza, ecc. Come sarebbe possibile non essere andini in questo Paese? Se sono peruviano e latinoamericano, prima di tutto sono andino, andino in quanto peruviano. Arguedas era andino, anche se bianco. Vallejo era andino perché si sentiva un cholo; così anche Ciro Alegría, Scorza, Ribeyro, Vargas Llosa erano andini, o lo sono nel caso dell’ultimo, non per vocazione, o per gusto, ma perché non possono evitare di esserlo. Chi è nato in questo Paese e non si sente andino, che altro potrebbe essere? Un andino che ripudia le proprie origini perché nel più profondo del proprio essere sa di essere andino ma non si sente tale? E quando dicono che la narrativa andina è passata di moda, mi fa ridere. Come può passare di moda il Perù? Come posso vergognarmi di essere peruviano? Devo vergognarmi perché affronto temi peruviani e mi riconosco peruviano? Può smettere di essere peruviano un essere umano nato, cresciuto tra queste montagne? Esiste qualcuno capace di dimenticarsi della propria memoria intima, delle proprie origini, della propria memoria genetica? Non bisogna vergognarsi di essere andini, bisogna vergognarsi dei governi corrotti che si sono succeduti in Perù… Tuttavia, essere uno scrittore andino non fa di me né un buon né un cattivo scrittore. Come non ci sono temi buoni e temi cattivi. Solo c’è buona e cattiva letteratura. Buona e cattiva letteratura andina, come buona e cattiva letteratura urbana, o cosmopolita. Sono uno scrittore andino, urbano e cosmopolita al contempo. In me vivono molte culture e io vivo, felice o meno, grazie a queste, ma essere andino non mi rende superiore a nessuno, né credo di avere l’ultima parola. Chi ha l’ultima parola? In fondo ciò che interessa è la buona letteratura. E della buona letteratura ciò che m’interessa è la sua varietà e complessità, così come la profondità di pensiero, il senso critico e l’atto di magia della scrittura, non importa da dove provengano. Per questo leggo Borges e Eleodoro Vargas Vicuña e mi sorprendo, Patrick Süskind e Ribeyro e mi commuovo. Con loro sento che il mio spirito si arricchisce e si eleva. Ma per questo non smetto di essere andino, non mi vergogno di mia nonna, una campesina molto povera, che quando raccontava storie si trasformava in un bosco, in un uccello e parlava con una filosofia e un ingegno incomparabili.

 

G.M.: Chi sono i tuoi padri letterari?

C.J.: Molti, in ogni modo da tutti coloro che ho letto e che mi sono piaciuti ho appreso qualcosa, qualche trucco, una forma, un modo di dire o una tecnica di costruzione dell’incipit di un racconto o di una poesia. E in questo non mi creo problemi, per me la buona letteratura prende da tutte le arti o essenzialmente sono una sola cosa (l’Arte) che si esprime nella forma che l’artista sceglie. Così quando scrivo racconti, il sentimento poetico mi aiuta, poiché so che non c’è buon racconto senza poesia, senza trascendenza, ben lungi dal kitsch e dallo sdolcinato o melodrammatico. La poesia deve essere contenuta in ogni opera letteraria che si rispetti, che contenga il mistero dietro tutto ciò che si dice o si esprime. I miei maestri sono i classici della poesia portoghese e brasiliana, amo la poesia di Fernando Pessoa, amo la poesia italiana: Dino Campana, Cesare Pavese, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti; sono felice quando rileggo i poeti giapponesi e cinesi (e cerco di imitarli), quando rileggo Villon, Rimbaud, Lautreamont; m’incantano i poeti peruviani: Eguren, Vallejo, Eielson, Adan, César Moro, Arguedas. Alla stessa stregua mi piacciono Cechov, Maupassant, Dostoevskij, e anche Hemingway, Bukowski, Ray Bradbury. La lista sarebbe interminabile. Chiudo con Amado, Carpentier, Borges, Rulfo, Cortázar, García Márquez, Rabelais, Kafka, i poeti del Secolo d’Oro spagnolo, ecc.

 

G.M.: Vedi delle differenze tra quello che hai scritto negli anni ‘80 e le tue ultime opere?

C.J.: Certamente, oggi sono più riflessivo, maturo, la mia prosa fluisce con più calma, è più elaborata. Probabilmente è più musicale, ritmica e meno improvvisata e incontrollata. Non ho perso intensità né veemenza, ancora meno l’imprescindibile pazzia poetica. Ancora levito e raggiungo mondi sconosciuti quando scrivo e sono ispirato. E non ho bisogno di fumare, né di prendere droghe, perché non fumo e non assumo droghe. Semplicemente sono innamorato della vita. Forse, ho bisogno di un caffé e di una minima opportunità per cominciare a levitare quando scrivo, finché non mi spuntano le ali. Un’ulteriore conferma della qualità della mia scrittura è Faite, il mio nuovo romanzo, e i racconti che ho appena scritto. Sono stupidamente felice quando vedo che le mie facoltà sono ancora sveglie e, anzi, mi aspetto di fare sempre meglio… Il mio segreto: non invidio nessuno né mi aspetto nessun riconoscimento. M’incanta stare al di fuori dello spettacolo e della gloria, lontano da chi si autocelebra con "autoomaggi" tipici dei peruvani, come, per esempio, l’essere inserito in un’antologia, fatta magari da un peruviano. Rido di coloro che si comportano come se io non esistessi… ho il sospetto che forse hanno paura di me, perché non sono capaci di volare…

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